1. La grande magia

 Capitolo primo

Era il 2009 e avevo cinquantun anni. Vivevo a Milano con tre dei miei cinque figli. La minore aveva undici anni e il maggiore venti. Loro ancora non lo sapevano ma sarebbero presto entrati in questa storia.

Non ricordo bene come mi sentissi a quei tempi, diciamo che ero abbastanza distratta e piuttosto indaffarata. Ero scappata a gambe levate dalla mia vita precedente, sposa, lavoratrice e madre, dopo un intervento alla parotide, che è una ghiandola che si trova sul collo sotto la mandibola. Per toglierla bisogna fare un lungo taglio e, a volte, è necessario recidere il nervo facciale.  Ancora agli inizi del 2000 non si parlava di tumore a voce alta, si sussurrava di “brutto male” ma al di là dei tempi e del sostegno sociale o familiare che una persona può ricevere in una simile situazione, immagino che l’idea di avere un tale malanno in più al viso, possa dare a tutti uno scossone notevole. Il mio fu uno scossone propulsivo che mi sparò lontano come la donna cannone. Mi ritrovai a Milano, più magra e più bella, stretta per mano solo ai due figli piccoli. Cambiai pettinatura, spesi un bel po’ di soldi in vestiti e biancheria intima e visto che il mio nervo facciale era rimasto intatto, sorrisi parecchio a destra e a manca.


Trenta ore per la vita, Giancarlo Gatti (detto il Micio) e Lilli Cremonesi, Sala Venezia, credit A. Di Canito

L'azienda di cui mi ero occupata prima della separazione, dopo poco tempo di penosa condivisione,  l'avevo ceduta al mio ex marito, così come avevo fatto per la nostra la casa, convinta del resto che lui ci avrebbe abitato insieme ai figlioli più grandi. Invece feci male i miei conti, nel senso che vennero a stare con me prima il terzo e poi anche il quarto figlio insieme al suo inseparabile pastore maremmano.  Il mio ex marito si risposò e la casa dove abitavamo fu venduta.

Avendo capito che probabilmente le mie aspettative di vita si allungavano e che il denaro lasciatomi dai miei genitori non sarebbe bastato per tutti, non volendo dar fondo ulteriore ai beni di famiglia, iniziai a darmi da fare per trovare un impiego. Impresa non facile, considerando che avevo da un bel po' passato i quarant'anni. In più c'era la piccola, che aveva bisogno di più attenzioni degli altri. Così dal momento che ero brava a usare le mani, dopo un paio di corsi di tecnica muraria, fatti in mezzo a una serie di attoniti giovanotti muscolosi,  aprii una piccola impresa di decorazione. Ogni tanto mi portavo dietro un figliolo a darmi una mano. Dopo un paio d'anni, stanca della polvere e della vernice, rinfrescai la mia laurea in Lettere con un diploma qualificante a Siena, trovai lavoro in una scuola privata e iniziai a insegnare l'italiano alle giovani promesse del Milan. Ero già stata insegnante, prima di lasciare la scuola per entrare nell'azienda della famiglia di mio marito.

Nel 2009 erano passati sei anni dall’intervento, e al di là che vivevo in un appartamento un po’ troppo affollato, stavo bene, senza uomini per casa di cui realizzare i desideri e fu solo per puro caso e senza nessuna intenzione che il ballo si presentò bussando diritto alla mia porta. Fu galeotto il foglietto giallo  posato, penso dal maestro stesso, nella casella postale, che promuoveva un onesto corso di boogie-woogie vicino a casa.

Il ballo, in tutte le sue forme, mi era familiare. Avevo sempre ballato, da bambina prima e da ragazza dopo, anche se l’esaltazione in cui mi portava la danza, quell’eccitazione fisica di stare in mezzo all’aria,  mi faceva sentire un po’ patetica. Non avevo fiducia nel mio corpo, nella sua grazia o bellezza, e inoltre, pur rendendomi conto della facilità con cui ballavo, non consideravo la danza diversa da altri passatempi, come la lettura, l’equitazione o la corsa. In definitiva, pur essendone attratta, non l'avevo mai presa sul serio.


Rai Uno 'Punto E Basta' TV Show

Comunque, in quell’ottobre milanese del 2009, lui, il ballo, semplice semplice, nella sua forma più popolare, era tornato da me e io lo avevo seguito e mentre giravo per le strade del mio quartiere alla ricerca del corso di boogie-woogie di cui parlava il volantino, mi accorsi che non mi importava di non essere accompagnata perché mi faceva lui stesso, il ballo anche solo l’idea del ballo, una buona compagnia.

Il corso si teneva in una delle tante (e benedette) Parrocchie di Milano. La palestra si raggiungeva dopo cortili, corridoi e scale e odorava di oratorio. Una volta scese le scale fino al seminterrato, nella saletta che affacciava all’ingresso della grande palestra, una sorta di disimpegno arredato con due poltrone non proprio pulite, trovai un signore né giovane né vecchio, seduto dietro al tavolino che per l'occasione era stato spostato bene in centro, e così seduto, munito di biro e blocchetto delle ricevute, accoglieva le persone. Il maestro, pensai, o il segretario, mi salutò con un sorriso che voleva essere di benvenuto e con una parlata leggermente alterata che tradiva il piacere di vedere un possibile nuovo iscritto, mi indicò lo spogliatoio.




Milano, Sala Venezia, Boogie in Formazione

Nello spogliatoio le panche erano di legno con le gambe in acciaio, i ganci al muro mi ricordavano quelli delle scuole medie e c'era anche quel disordine scolastico da felpa abbandonata chissà da chi. Sedute sulle panchette, chine ad allacciarsi i cinturini delle semplici scarpe da ballo di ReArt (ancora non c'era la moda sofisticata del vintage) stavano trepide due signore più una ragazza giovane, la cui freschezza arrivava per osmosi alle altre, tutte quante sorridenti e ben disposte a ballare meglio se con il maestro.

The dancing master, 1948

Una volta tornate in anticamera vidi che erano arrivate altre persone, più o meno della mia età, in coppia. C’era anche un piccoletto calvo, Nunzio, che parlava con un accento meridionale, l’aiutante seppi poi, uno di quei personaggi che ritrovi sempre nei corsi di ballo a “dare una mano”. Intanto lui, che decisi fosse il maestro, dopo aver riposto il suo blocchetto per le ricevute abbandonò la postazione e entrò in palestra. Non sembrava aver incassato granché, ma quando entrò in sala dai suoi allievi, fu come se un vento dal dentro lo risollevasse dandogli l'energia entrando di sfondare una porta magica.

Thru the Mirror (1936)

Notai che era un uomo alto, non corpulento, non magro, indossava una semplice maglietta scura di cotone e dei calzoni comodi dal taglio alla francese, con ampie pinces sul davanti e una sottile riga bianca orizzontale proprio sotto la cintura. dalla qual cosa si poteva dedurre che vivesse solo. Armeggiò con il registratore e i CD, finché partì una musica ritmata alla Elvis,  alzò il volume e la musica rimbombò. Il maestro, scelta una delle signore in attesa, alzò la mano sinistra e fece un segno con le dita. Le coppie in fila partirono in sincrono.


Campionati italiani ANMB di Boogie-woogie da Sala, 2013

Il loro passo era un poco diverso e qualche figura cambiava ma era lo stesso ballo da sala che conoscevo già. Così presi a ballare anche io in fila, un po’ da sola, un po’ in coppia e quando il maestro mi disse di ballare con lui pensai di essere stata apprezzata. Ma forse no, perché poi cambiò partner e io ritornai in ordine al mio posto.

Avevo imparato il boogie da sala qualche tempo addietro nella balera o meglio nel dancing stile anni Settanta del paese di novemila anime dove ci eravamo trasferiti all'arrivo del  quinto figlio. Questo locale storico era un seminterrato in cui si accedeva tramite una breve discesa di scale, attrezzato con un bancone da bar e una bella pista rotonda in legno. Tutto intorno alla pista stavano quei divanetti bassi in similpelle che andavano in quegli anni. Si faceva lezione la sera una volta a settimana, le classi erano divise su tre livelli. Insegnavano moglie e marito in coppia. Lei era una bella signora coi capelli rossi, che soffriva di psoriasi ai piedi e curava con l’acqua termale. Lui un signore un po’ molliccio, con un bel sorriso birbante sotto i baffi e un grande naso a patata. Entrambi insegnavano in tuta, lei ne indossava una più calda, con le strisce bianche e blu sui lati della gamba e una polo che non nascondeva la figurina, lui portava dei calzoni morbidi con il cordino che gli penzolava sul davanti e una vecchia maglietta.


Sala da ballo Jumpin, Jazz di viale Monza, Milano, 1956

Primo, secondo e terzo livello. Le figure aumentavano di difficoltà e soprattutto di numero man mano che si passava di grado. Ogni anno salivi di livello, non c’erano esami. Primo, secondo, terzo anno che durava per sempre.

Oltre alla lezione settimanale, c’erano le serate del sabato. Alle serate c’era sempre il maestro e sua moglie, ben vestiti. Guidavano sempre loro, entrando in pista al primo accenno di ballabile boogie woogie  muovendo flotte di allievi. Con le mani facevano i segni e le coppie disposte in fila o in cerchio sgambettavano guardando un po' il maestro un po' davanti a loro, fieri. Se la musica era veloce, noi sapevamo che era riservata al secondo e al terzo livello, se era tranquilla, spesso la stessa canzone usata a lezione, si cimentavano i ragazzi del primo anno. All'apice della musica il maestro iniziava a far ruotare le dame, e i ballerini più esperti si cimentavano in giri e piccole acrobazie.

In sala, fuori dal nostro gruppo, sedevano coppie datate dove le mogli sistemate al meglio tenevano d’occhio i consorti. Sedevano signore sole, coi capelli tinti e crespi che dai divanetti in similpelle si guardavano intorno, e altre signore più giovani coi capelli chiari pettinati all'indietro che facevano altrettanto anche se con l'intento opposto.


Al dancing si ballava per lo più il fox e il boogie, ma anche la mazurka, la polka, la baciata, meno il valzer e il tango che erano più complicati da imparare. Sotto le luci che occhieggiavano dal perimetro del soffitto nella frenesia del ballo le coppie giravano e gli uomini erano storditi da quel passaggio di corpi di donna. Noi ragazze ci divertivamo. Per lo meno io mi divertivo tantissimo. Il fatto che sorridessi oltre alla mia agilità nel seguire i ballerini mi portava, per la durata del ballo, al centro dell’energia del gruppo. E poi c’era il bel Corrado, che si vedeva solo alle serate, macinando diversi chilometri e non mancava mai. Ballava bene tutti i balli ma era un campione nel fox e profumava forte di Fabergé. La sua preferita, che era lì con il marito e che era l’indiscussa regina della pista, non lo perdeva mai di vista, e se il bel Corrado mi chiedeva un secondo ballo, lei ci curava sottecchi seppure, ostentando il suo spirito, che di sicuro non le mancava, non smetteva di conversare. C’era anche l'Alfredo, il finanziere in pensione, alto, bianco e robusto con la sua mogliettina giovane, tozza e gentile. C’erano i compagni di classe e quelli degli altri livelli, persone che non avrei riconosciuto per strada ma tra le cui braccia, lì nel dancing di paese, passavo e ripassavo.


Riso amaro, Vittorio Gassman, 1949

Quando mi ritrovai a Milano, ben lontana dalle risaie dove non so come, ero finita, smisi di ballare. Non me ne dispiacqui affatto. Tanto lui, il ballo, era sempre dentro, a mia disposizione.

Dopo sei anni di questa nuova vita milanese, ancora in salute e coi figli più o meno abbastanza cresciuti da farti sentire indesiderata in casa tua, trovai quel volantino nella casella postale. Una fotocopia su carta colorata di una scritta al computer. Niente di speciale in effetti ma bastò per portarmi per strada, infreddolita, a cercare una palestra seppellita dietro citofoni e corridoi. Così quella sera ballai e scalciai e alzai bene le ginocchia come mi aveva detto il maestro che sembrava notarmi appena, le palpebre sempre fisse a metà, una sola cosa coi segni che faceva con le dita, i passi che ne fuoriuscivano e le ginocchia che scattavano al ritmo della musica.

La volta successiva pagai quattro lezioni e quando, finite le quattro lezioni tornai nuovamente, in ritardo, il maestro mi fece una gran festa. Lui stava sempre seduto dietro il banco all’arrivo, ma io non pagai più perché di fatto facevo coppia con lui o così almeno credevo. In teoria lo avrebbe dovuto aiutare sua sorella, ma in quel periodo la sorella, vedi il caso, non c’era e il maestro aveva optato per me, lusingandomi come 'ballerina scelta' per dargli una mano con i meno capaci.

Se tornassi indietro, però, pagherei tutte le lezioni, e non tanto per principio, ma perché riconoscevo sempre, sia che fossimo in quattro gatti o un gruppetto coeso, che quell’uomo maturo, con la sua storia alle spalle, quando si alzava dal banchetto sembrava sfondasse per noi, per la sua classe sgangherata di ballo, una porta magica e ci portasse di là. E questa magia, dove non importa come e con chi, dove semplicemente vivi il tempo del ballo, felice, come un infante che non bada se suda o se si infanga, questa magia, dicevo, riescono a farla solo alcuni maestri, e lui era uno di questi.

Coppia di maestri di ballo, anni 60, anonimo, da IG @Thedummbananas

 

Nonostante questa storia sia autobiografica, personaggi e situazioni sono stati rielaborati creativamente e filtrati attraverso la lente del ricordo. La ricostruzione dei fatti può non corrispondere alla realtà

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